Klemm nacque a Zürich e quando aveva 3 anni la sua famiglia si trasferì a
Winterthur, città industriale, commerciale e, grazie al mecenatismo dei tre fratelli
Reinhardt, dalla ricca vita culturale. Werner Reinhardt in particolare si occupava
della musica. La villa che attualmente è sede del Conservatorio di Winterthur è stata
lasciata da Reinhardt.
A 9 anni entrò al Conservatorio, nella classe di Andrè Jaunet. I migliori flautisti
svizzeri, compresi Nicolet e Graf, si sono formati in quella classe. Jaunet, che
Reinhardt aveva fatto venire dalla Francia, era stato allievo di Gaubert e Moyse ed
era solito mandare gli allievi al Conservatorio Superiore di Parigi dopo il diploma.
Klemm si diplomò a Winterthur nel 1945. Poi andò al Conservatorio di Parigi,
in tempo per entrare nella classe di Moyse, che era da poco rientrato dall’America
dove si era rifugiato perchè ebreo. Là imparò cosa significa studiare. A Parigi la
competizione in classe era talmente forte che non si poteva dormire neanche un
giorno, c’erano continui esami e ci voleva una media particolarmente alta per poter
accedere al concorso finale per il premier prix. Finì gli studi a Parigi nel 1951
ottenendo il premier prix insieme a Larrieu.
Conrad Klemm ha occupato il posto di 1° flauto in alcune delle maggiori
orchestre europee: Winterthur, S. Gallo, RIAS di Berlino, Lucerna, Mozarteum di
Salisburgo, e, per 25 anni, all’Accademia di Santa Cecilia di Roma. Flautista di
statura internazionale, ha tenuto concerti in numerosi festival in Europa, Medio
Oriente, Russia, Stati Uniti ma -cosa non così scontata per un concertista di fama
mondiale- ha anche dedicato una parte fondamentale della propria carriera
all’insegnamento, creando una generazione di eredi impressionante. Ha introdotto e
divulgato in Italia la Tecnica Alexander di cui è professore dal 1977 dopo essersi
diplomato alla scuola di Peter Scott a Londra : a lui si deve l’introduzione in Italia di
questa fondamentale tecnica di rilassamento, così preziosa per i musicisti. Per molti
anni la sede precipua delle lezioni di Conrad Klemm è stato il Conservatorio elvetico
di Winterthur, ma innumerevoli sono anche i corsi di perfezionamento frequentati da
allievi di ogni parte del mondo. Molti dei più importanti flautisti di oggi sono stati suoi
allievi.
Nel 2005 è stato conferito ai professori Maxence Larrieu e Conrad Klemm il
Premio “Il flauto d’oro” per la loro carriera.
Parlando del suo maestro Jaunet, Klemm dice che era didatticamente chiaro,
completo e creativo. Per aiutarlo ad ottenere una buona qualità sonora, per esempio,
fece un taglietto con un coltellino sull’anello che unisce la testata al corpo del flauto, e
questo impostò la sua sonorità per l’avvenire.
Un aneddoto: un giorno il mecenate Werner Reinhardt raccontò a Jaunet che
secondo la sua opinione i francesi, dato che parlano “in bocca” sarebbero
avvantaggiati nello studio del flauto rispetto agli svizzeri-tedeschi che invece parlano
“in gola”. Jaunet non era d’accordo, promise che presto sarebbe emerso un flautista
svizzero. Stava pensando al suo allievo Conrad Klemm. Reinhardt venne a
conoscenza di questo promettente studente svizzero che parlava “in gola” ma
suonava bene quanto uno studente francese.
Nel 1946 Klemm conobbe Moyse durante una masterclass a Lucerna, dove
fra l’altro incontrò il giovanissimo Peter-Lukas Graf che lo impressionò con il suo
suono pulito e la sua tecnica perfetta. Capì subito che quel ragazzo lavorava si con
l’animo, ma anche con la testa e che aveva una disciplina colossale. La sua
brillantissima carriera dimostrò che aveva ragione.
Per lui fu importante vivere il modo di provare e di interpretare dei diversi
direttori di orchestra (Furtwängler, Kleiber, Walter, Scherchen, Klemperer, Previtali
e Karl Richter) e dei grandi solisti.
Klemm è arrivato in Italia grazie a Fernando Previtali, direttore stabile
dell’Accademia Santa Cecilia, che andò a cercarlo in Svizzera poichè in Italia non
c’era una scuola di flauto rinomata come quella francese. E’ stato il primo straniero a
far parte dell’orchestra dell’Accademia Santa Cecilia. Ad un certo punto gli venne
offerto di suonare Alla Scala, cosa che gli fece grande onore e lo tentò, soprattutto
perchè aveva una grande voglia di insegnare e, dato che non poteva insegnare nei
conservatori italiani perchè non aveva la cittadinanza, l’essere a Milano gli avrebbe
permesso di essere molto vicino alla Svizzera per andare ad insegnare. A questo
punto l’orchestra della Santa Cecilia, in una seduta straordinaria, gli concesse il
permesso di andare ad insegnare in Svizzera 2 volte al mese e così continuò a
suonare musica sinfonica a Roma.
Klemm non ebbe rapporti stretti con Gazzelloni. Piuttosto nei primi tempi c’era
un rapporto di rivalità perchè erano tutti e due a Roma e tutti e due primi flauti.
D’altro canto Gazzelloni si è poi dedicato alla musica contemporanea, curando il
repertorio di avanguardia. Lui invece curava il repertorio classico e non si interessava
particolarmente al repertorio di avanguardia.
Klemm è uno dei più insigni didatti viventi, molti flautisti famosi si sono
perfezionati con lui. Il suo insegnamento è centrato in modo particolare sul suono,
che, dipendendo da una respirazione corretta, è la base di tutto. Cura moltissimo
l’articolazione, il fraseggio, il timbro e la dinamica. Comunque la cosa fondamentale
della sua metodologia è il rispettare “lo strumento”. Non bisogna aggredirlo, non
bisogna forzare, non si deve cercare di vincere su di lui per arrivare a una meta
prefissata, musicale o tecnica che sia. E’ necessario invece creare un rapporto di
armonia con lo strumento. Il primo esempio che l’allievo ha di fronte per creare
questo tipo di rapporto è il rapporto stesso fra lui e l’insegnante, che deve essere
armonioso e non di giudizio. L’insegnante non deve disfare ma costruire su quello
che c’è di innato e di appreso nella persona che ha davanti.
Con il passaggio di stile dalla musica del 900’ alla musica d’avanguardia i flauti
Lot francesi, con i loro suoni dolci, snelli ed eleganti, venivano messi pian piano via e
si sostituivano con strumenti con più suono, forse meno flessibili ma con una
meccanica più affidabile. Parallelamente anche l’insegnamento ha fatto grandi passi
avanti quando i flautisti scoprirono nuove tecniche ed effetti. In questo senso Nicolet,
Gazzelloni e Fabbriciani furono pionieri per agevolare la musica d’avanguardia e per
sviluppare le nuove tecniche, seguiti poi da altri.
Klemm ha suonato più volte come solista e ricorda particolarmente il
Concerto di J. Ibert, con Jean Martinon direttore e il compositore in sala, la Ballade
di Frank Martin diretta da B. Maderna, la prima esecuzione del Concerto per flauto
di Ghedini. Durante la stagione di concerti dell’Accademia di Santa Cecilia ebbe il
piacere di presentare per la prima volta in Italia la Sonata di F. Poulenc con l’autore
al pianoforte e ha suonato le sonate di J. S. Bach con Karl Richter al cembalo.
Ha partecipato a molte registrazioni di colonne sonore a Cinecittà con Ennio
Morricone, Armando Trovaioli e con Nino Rota per i film di Fellini (La dolce vita),
Sergio Leone, Luchino Visconti (Rocco e i suoi fratelli, Il gattopardo) ed altri.
Per tracciare un parallelo sulla attività in orchestra di Klemm e Gazzelloni
teniamo presente che :
Severino Gazzelloni fu 1° flauto alla Rai di Roma negli anni 1944-1974
Conrad Klemm fu 1° flauto alla Santa Cecilia di Roma negli anni 1952-1975
La musica secondo… Conrad Klemm
Tensione, stress, disturbi psicosomatici, malattie professionali dovute a un uso incontrollato del proprio corpo, spesso costretto dalle circostanze e dall’abitudine a posizioni forzate: se questa serie di disturbi si avverte in una gran parte delle attività lavorative con conseguenze disagevoli, nel caso in cui ci si trovi di mestiere a dover esprimere davanti a un pubblico le proprie capacità creative avversità di questo genere possono arrivare a distruggere una carriera o, nel migliore dei casi, a renderla estremamente tormentata. Rivolgersi alla scienza medica è spesso un tentativo inadeguato o addirittura vano.
È quel che capita, alla fine del secolo scorso, al giovane australiano Matthias Alexander, i cui continui abbassamenti di voce minacciano di stroncare sul nascere una promettente carriera di attore. Dopo consulti e terapie di ogni specie, Alexander finisce per rendersi conto che l’unico rimedio efficace per far ritornare normale la sua voce è il completo riposo e questa constatazione lo porta a ritenere che il problema alla base del suo disturbo sia di natura funzionale e non organica. Così, da un’attenta osservazione del proprio corpo davanti allo specchio, scopre di esercitare una innaturale pressione sulle corde vocali con l’atto per lui abituale di spingere la testa indietro e il petto in fuori.
Da queste premesse nasce e si sviluppa un lavoro di analisi e di ricerca che lo porterà all’elaborazione di un metodo, la Alexander Technique, valido per tutti. Partendo dal semplice principio che “l’uso influisce sulla funzionalità”, il metodo insegna a operare uno “stop” ogni volta che si avvertano situazioni di tensione e a sostituire progressivamente un controllo cosciente ai riflessi automatici abitudinari per arrivare a prevenire l’insorgere di complicazioni di natura psichica e fisica dovuta a “malcomportamenti” e per imparare nello stesso tempo a non perdere il controllo delle proprie emozioni.
A Londra, dove si trasferisce col fratello nel 1904, Alexander si dedica al perfezionamento delle sue teorie e getta le basi di una scuola che troverà terreno fertile soprattutto negli ambienti legati al mondo dell’arte e della musica. Anche molte personalità illustri di ogni ambiente culturale, come G.B. Shaw, Aldous Huxley, Dewey, Frank Piece Johns, si fanno entusiastici assertori della sua ipotesi e numerosi tra i suoi allievi continuano l’opera di divulgazione del maestro, tanto che oggi esistono moltissime scuole di Alexander Technique, soprattutto in Inghilterra, Svizzera e Israele, ma anche in Germania, Olanda, Stati Uniti e molti altri paesi.
La relativa lentezza nella diffusione di una tecnica, che trova in chi l’ha sperimentata una risposta estremamente convincente, sta nel fatto che può essere appresa solo tramite un’esperienza acquisita nel corso di lezioni impartite individualmente da un maestro. In pratica questi ha il compito di individuare e mostrare all’allievo in che misura pratichi un “ab-uso” del suo corpo e come possa imparare a evitarlo sia in stato di quiete che in piena attività. Queste informazioni devono essere accompagnate da aggiustamenti manuali del corpo da parte dell’insegnante e implicano l’apprendimento di una serie di “parole chiave” da associare man mano a un nuovo uso cosciente e migliore dell’attività muscolare. Forse il sistema può risultare un po’ astruso nelle sue linee teoriche, ma non è così nella pratica, tanto che può essere insegnato con facilità ancora maggiore ai bambini. Alcune decine di sedute possono essere sufficienti a imparare a sfruttarne i vantaggi, mentre per arrivare a poteme trasmettere la conoscenza occorrono almeno tre anni di studio presso un “Centro di Formazione per Insegnanti”. Il primo di questi centri in Italia è nato nei pressi di Pisa lo scorso anno, ma il merito di avere interessato e reso sensibile ai principi esposti l’ambiente musicale italiano va attribuito al noto flautista svizzero Conrad Klemm, docente del Conservatorio Superiore di Winthertur e considerato uno dei “grandi maestri” nell’insegnamento del suo strumento. A lui abbiamo rivolto alcune domande pregandolo innanzi tutto di raccontarci la sua esperienza personale.
Ho sentito parlare per la prima volta della tecnica nel ’64. Esercitavo la mia professione già da molto tempo, quando mi recai in Francia durante le vacanze per incontrare il mio ex-maestro Moise,
che ogni anno tornava dall’America nel suo paese natale, e in quell’occasione ebbi modo di conoscere due giovani flautisti israeliani, oggi membri dell’Israel Symphony Orchestra. Da loro sentii parlare diffusamente della teoria di Alexander e degli enormi benefici che questa poteva offrire soprattutto a un musicista. Devo dire che, per quanto interessato, non fui esageratamente colpito dai loro discorsi, anche perché, non incontrando allora alcun particolare problema a suonare, non potevo sentire la necessità di una tecnica che mi aiutasse a superare le difficoltà. Rimasi comunque in rapporti di amicizia con quei flautisti e così, quando due o tre anni più tardi, trovandomi in Israele, presi la mia prima lezione di “Alexander Techique” mi impressionò immediatamente dovermi accorgere quante insospettate tensioni fossero dentro di me. E subito mi convinsi della validità e dell’enorme utilità del metodo. Per poterne proseguire l’apprendimento misi allora il mio studio romano a disposizione di alcuni insegnanti che ogni tre o quattro mesi venivano dall’estero per dare lezione non solo a me, ma anche a molta altra gente. Questa iniziativa ebbe subito un grande successo, risvegliando in particolare l’immediato interesse dei membri dell’Orchestra di S. Cecilia, di cui ero allora primo flauto. Per quel che mi riguarda mi convinsi ad approfondire lo studio di questa teoria tanto da dedicare a ciò tutto il tempo che mi era possibile “rubare” ai miei impegni di lavoro e, dopo sette anni, nel 1977, finii per conseguire il diploma di insegnante con quel magnifico maestro che era Peter Scott, diretto allievo di Alexander. Successivamente ho continuato a divulgarne i principi come mi è stato possibile, tenendo conferenze sull’argomento, insegnandoli inizialmente io stesso e continuando a chiamare altri maestri in occasione dei corsi di perfezionamento dello strumento che tengo ogni anno in Italia, Svizzera e Austria.
In cosa consistono i principi di Alexander?
È un po’ difficile spiegarlo astrattamente. La vita quotidiana ci sottopone a pressioni di ogni genere, ci costringe continuamente a correre ed è difficile sottrarsi agli stress: veniamo sempre spinti verso la tensione, mai verso la distensione, e questo si ripercuote inevitabilmente sul fisico. Chi per esempio suona uno strumento per ore e ore cercando di raggiungere un risultato, di solito, se non riesce, affronta il problema sempre con più aggressività e quindi con maggior tensione, continua a prestare attenzione a “cosa” sta suonando piuttosto che a “come” sta suonando: da ciò derivano nel tempo infiammazioni nel collo, mal di schiena, mal di testa cronici e altri disturbi, oltre a una riduzione inevitabile della funzionalità. Anche le emozioni, tanto quelle migliori come la gioia, quanto quelle deteriori come la paura, provocano delle contrazioni muscolari istintive. Queste possono influenzare molto negativamente il coordinamento armonico dei movimenti, o quanto meno risultare eccessive. La Tecnica Alexander insegna a eliminare le tensioni inutili, a esercitare un dominio cosciente sulle emozioni e sulle reazioni istintive. Alexander non si è soltanto reso conto dell’importanza fondamentale del giusto coordinamento tra la testa, il collo e la schiena, non si è limitato a teorizzare che solo con un collo libero la testa può galleggiare sulla spina dorsale e solamente con un collo libero la colonna vertebrale si può aprire, allungare e allargare liberamente; la sua opera geniale è stata l’elaborazione di un insegnamento che sia possibile trasmettere ad altri tramite il linguaggio delle mani. Lo si realizza attraverso una forma di comprensione interna, una sorta di introspezione di base, ma a differenza di altre discipline non è necessario porre alcuna giustificazione di carattere filosofico, etico o religioso alla radice di questa scelta. Anzi, per dirla con le parole di Alexander, si può spiegare a un ladro il modo di diventare un ladro più efficiente. È pur vero che l’enorme benessere psicofisico che si riesce a conquistare dilaga in un certo senso anche nello spirito, ma questo dipende esclusivamente dall’individuo.
Come spiega la particolare fortuna incontrata nell’ambiente musicale da un metodo che è stato elaborato in modo tale da essere valido per chiunque?
Naturalmente i problemi legati al coordinamento dei movimenti sono maggiormente sentiti da chi, come i musicisti, ha bisogno di un pieno dominio della propria gestualità per potersi esprimere al meglio. Troppo facilmente si addebita all’età l’insorgere di inconvenienti di natura fisica che finiscono per limitare le proprie capacità tecniche, mentre è possibile riuscire a evitarli attraverso un lavoro di comprensione di se stessi che deve iniziare molto prima, quando cioè le difficoltà ancora non esistono. Non bisogna però pensare di potersi in tal modo scoprire doti inesistenti, perché seguire questo metodo non insegna a suonare meglio, ma mette nelle migliori condizioni per poter sviluppare le proprie potenzialità e poterne usufruire fino in fondo in quel determinato momento. Percorrendo poi questa strada, ci si accorge che non è importante solo il risultato pratico raggiunto, ma anche e soprattutto il cammino percorso per arrivarci.
Partendo dalla sua vasta esperienza di musicista e di insegnante, cosa in particolare vorrebbe far sapere ai giovani?
Vorrei premettere innanzi tutto che generalmente chi suona bene è portato ad avere naturalmente un comportamento abbastanza corretto. Ci si esprime anche attraverso l’uso delle braccia, delle mani, delle spalle: è quindi logico che si presti una certa attenzione ai propri movimenti. Questo non è purtroppo sufficiente, perché una volta imboccata una strada sbagliata c’è il rischio di accorgersene solo dopo molti anni, quando diventa arduo porvi rimedio.
Per questo è indispensabile per i giovani artisti, per i giovani musicisti agli inizi, riflettere per tempo sulla propria funzionalità psicofisica perché questa diventerà lo strumento imprescindibile della propria futura professione.
La tecnica Alexander offre un valido mezzo per controllare questa funzionalità. Dei moltissimi giovani che ho visto avvicinarsi al metodo, una gran parte ne ha capito l’importanza fin dalle prime lezioni, anche se i risultati che ha prodotto sono di difficile valutazione perché si avvertono nel tempo e dipendono molto dalla volontà, dalla costanza e dal grado di convinzione dell’individuo nel metterne in pratica i principi.
La mia ferma convinzione della validità di questa teoria deriva senz’altro dai riscontri enormemente positivi che ho potuto verificare direttamente su me stesso, ma perché questa esperienza non paia troppo limitata vorrei aggiungere che in alcuni casi ho potuto notare negli allievi trasformazioni tali da apparire veri e propri miracoli.
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